Alcuni degli aspetti più profondi del pensiero indiano sono stati legati, in passato e ancora oggi, alla filosofia shivaita. Questa filosofia, originariamente distinta da quella dei Veda, appartiene a uno stato più antico della civiltà indiana che, a poco a poco, venne assimilata dai conquistatori ariani. Rudra, il respiro vitale del cosmo, è l’equivalente vedico di Shiva: inizia a prendere il suo posto predominante come dio dell’Oscurità trascendente e personificazione della tendenza disintegrante (tamas), soltanto nelle Upanishad, che esprimono il pensiero di un’epoca in cui la visione vedica del mondo aveva abbandonato gran parte dell’originaria concezione naturalistica dell’universo, per impregnarsi di altre nozioni prese dalle culture aborigene del paese indiano. Lo shivaismo ha sempre costituito la religione della gente semplice dell’India, per la quale non vi era nessuno spazio nella società aristocratica degli ariani; ma è rimasto pure la base delle dottrine esoteriche trasmesse da ordini iniziatici la cui missione era, ed è ancora, di conservare le forme più elevate della speculazione metafisica attraverso i periodi di conflitto e decadenza, come quello che seguì alla conquista ariana dell’India, quando cioè i vincitori proclamarono la superiorità delle proprie concezioni religiose sulla saggezza senza tempo delle culture indigene (di cui però i conquistatori finirono gradatamente per impregnarsi).
Lo Shivaismo era stato per secoli una religione perseguitata, presentata come la religione degli anti-dei e dei demoni. Nel Rāmāyana, Rāvana, il demone-re di Cylon è un devoto di Shiva. Dopo secoli di dominazione ariana tuttavia il rituale vedico e la connessa filosofia erano stati talmente pervasi dalla saggezza degli antichi asura, che erano stati profondamente trasformati. La differenza tra pensiero ariano e non ariano era diventata così esigua che fu facile far posto apertamente ad aspetti del culto di Shiva per i quali i primi ariani avevano ostentato orrore e disprezzo. Secondo la leggenda, il saggio Kapila è stato il primo che ha studiato questa saggezza quasi dimenticata dagli asura e l’ha insegnata ai fedeli dei Veda. Ai nostri giorni la filosofia shivaita rappresenta l’aspetto più astratto del pensiero religioso indiano.
Ogni cosa che ha un inizio deve necessariamente avere una fine. Tutto ciò che è nato deve morire. Questo potere universale di distruzione per cui termina ogni forma di vita e da cui scaturisce tutto ciò che vive è denominato Shiva, il Signore del sonno, “colui dal quale gli esseri nascono, mediante il quale una volta nati vivono, nel quale si fondono allorché muoiono”. Shiva è la personificazione di tamas, l’inerzia centrifuga, la tendenza verso la dispersione, la disintegrazione, l’annichilimento. Mentre l’universo si espande indefinitamente, esso si dissolve gradualmente e cessa di esistere in quanto organismo. Nulla di ciò che esiste può sfuggire a tale processo di distruzione. L’esistenza è solo uno stadio in un universo che si espande, cioè si disintegra. Dalla distruzione, dalla disintegrazione rinasce nuovamente la vita. Alla fine e all’inizio rimane soltanto Shiva, il potere della disintegrazione. Egli è descritto come un vuoto infinito, substrato dell’esistenza ed è paragonato al silenzio e all’oscurità dell’inconscio di cui abbiamo un’esperienza relativa nel sonno senza sogni, nel quale è sospesa ogni attività mentale. Le Upanishad lo descrivono come un abisso senza fondo. “Al di là di questa oscurità non v’è né giorno né notte né esistenza né non esistenza: solo Shiva, l’indistruttibile. Lo stesso Sole si prostra davanti a lui. Da esso è scaturita la saggezza senza tempo”[1].
[1] Shvetāshvatara Upanishad 4,18.
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